Sette Notti, Otto Giorni

15,00 

ISBN 978-88-96356-15-9
Narrativa

Sette Notti, Otto Giorni

Rosa Galli Pellegrini

120 pagine in b/n su carta avorio edizioni, libro in brossura con copertina a colori plastificata lucida

12 disponibili

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Descrizione

Una storia d’amore: apparentemente banale. Una donna italiana ha da anni una storia con un uomo sposato, un pittore turco: i due si incontrano periodicamente per qualche giorno ad Istanbul, quando la donna si libera dai suoi impegni di famiglia e di lavoro. Il romanzo racconta l’ultimo nel tempo di questi incontri. Si intrecciano le giornate passate in giro per la città con i sentimenti e le sensazioni della donna che si riflettono con un’altra storia che si svolge “sotto” la città, nell’immaginario interiore della donna. Fa da sfondo marcato al racconto un panorama politico odierno del Paese – così com’è percepito dai personaggi della storia – che si insinua anche come un noir onirico.

 

 

1 recensione per Sette Notti, Otto Giorni

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    Così scrive F.R. a proposito di Sette Notti, Otto Giorni

    SETTE NOTTI, OTTO GIORNI è un romanzo intrigante e affascinante. Si legge tutto d’un fiato, ma per scoprirne i molteplici significanti reconditi va letto e riletto. Ci vuole un lettore curioso e amante del suspence. La storia è apparentemente semplice: una storia d’amore che finisce acidamente fra una donna occidentale e il suo amante turco nella Istanbul odierna. Ma una seconda e una terza storia si intrecciano in un mondo sotterraneo: i fantastici cunicoli di una città millenaria dove di svolge una spy story tra l’irreale e la realtà politica; e infine l’io sommerso di una seconda protagonista. C’è di che confondere il lettore, ma c’è anche di che spingerlo a dipanare un intreccio e a trovarne finalmente i fili conduttori. Dieci e lode!

    Così scrive Edda Conte a proposito di Sette Notti, Otto Giorni

    “Sette Notti, Otto Giorni” è un lavoro colto e interessante. Una lettura molto particolare, intrigante sotto diversi aspetti, non solo per il tipo di architettura stilistica – invero originalissima e utile a mantenere alta la tensione narrativa – ma anche per quel duplice narrare in parallelo condotto con abilità tecnica nei singoli svolgimento, solo apparentemente indipendenti, in realtà legati da messaggi subliminali che al lettore frettoloso possono anche sfuggire. […] opera che nel suo insieme risulta culturalmente dotata e, proprio in virtù di un non facile approccio, offre molti spunti per la discussione.

    Così scrive Francesco Biasci a proposito di Sette Notti, Otto Giorni

    Una situazione già abbastanza complicata: il libro. Ogni libro. Autore, narratore, lettore/lettori: i soliti venticinque, quelli a cui si rivolge esplicitamente la voce narrante (talvolta le voci). Infine i lettori veri, quelli che decidono in ultima istanza sul libro e il suo destino. Che bisogno c’è di ulteriori complicazioni di presentatori e recensori? In questo caso, per di più, da parte di un lettore senza competenze specifiche di critica letteraria, di letteratura/letterature contemporanee, di questo o quell’altro approccio tematico o comunicativo? Un lettore fra i tanti, senza poteri di rappresentanza (perché la lettura è ancora – sì? per fortuna? – operazione individuale e silenziosa).

    Con compiti di facilitatore, come dovrebbe intendersi per statuto. Ma introducendo pregiudizi, saperi o presunti tali, ignoranze, meccanismi vari di fraintendimento. Perché intendersi fra è sempre fra-intendere. Anche qui per statuto, o comunque, in questo caso, autorizzati dall’autrice stessa (o dall’editore?) che dall’ultima di copertina ci chiama al coinvolgimento come lettori.

    Appunto. Veniamo al libro. Cercando di farlo parlare il più possibile.

    Ci sono luoghi popolati di storie. Vi ricordate il Foscolo? Citazione un po’ desueta, da noioso professore di liceo. “Felice te che il regno ampio de’ venti, / Ippolito, ai tuoi verdi anni correvi, / e se il pilota ti drizzò l’antenna/ oltre l’isole egee, d’antichi fatti / certo udisti suonar dell’Ellesponto / i liti…”. Felice anche Rosa, per quegli stessi luoghi. Basta esser passati di lì e le storie antiche si impadroniscono di noi. Ci prendono e ci portano verso un amore antico. Un braccio di mare che unisce e separa. Il Bosforo o anche l’Ellesponto. Il mare di Elle che, in fuga da un destino crudele, qui trovò non la salvezza ma la morte precipite in mare. Su quel braccio di mare fra Asia e Europa (Ellesponto o Bosforo, poco importa) la traversata ogni sera di Leandro, verso quel punto di luce che Ero, impaziente di riveder l’amato, accende sulla sommità di una torre (quando, cacciato il giorno, le stelle appaiono più lucenti) per orientar le forti bracciate del giovane. Fino a quella notte di tempesta che spenge, col lume, anche la vita di Leandro e quella di Ero, disperata, suicida giù dalla torre.

    La “Torre della ragazza”, anche Torre di Leandro, è luogo centrale di Sette Notti Otto Giorni. Una storia d’amore, ormai al suo finire, fra la protagonista e il pittore Ferhan: occidentale lei, asiatico di ascendenze mongole lui. Il difficile incontro di due continenti che una striscia di mare (Bosforo, “passaggio”) fa sentire e vedere vicini, condannandoli tuttavia alla separatezza. Forse in questo paradosso sta la magia di una città come Istanbul, la sua quotidianità fatta di passaggi: “Passiamo di fronte” è in traduzione letterale l’espressione cha a Istanbul si usa per dire “passiamo in costa d’Asia” o, viceversa, “in costa d’Europa”.

    Ero e Leandro nelle parole di Ferhan:

    “Tu sei Ero, Ero vestita di lunghi veli bianchi. Guardami. Non lasciare che si spenga il tuo lume nella notte. Davvero, se così fosse, io potrei morire per te”(pag. 38).

    Ma i trucchi delle romanticherie sono visti con più consapevolezza ironica dalla protagonista:

    “… perché mai noi chiamiamo questo faro “la Torre di Leandro”? in fondo ci abitava Ero, la sacerdotessa. Leandro ci veniva soltanto quando gli faceva comodo, anche se il lume della lanterna rimaneva acceso tutte le notti … Imbranato com’era, Leandro, per una volta che il lume si era spento non ha saputo fare quattro bracciate in più e raggiungere il faro! Si è lasciato andare” (pag. 23).

    Un’ironia che diventerà amara nella conclusione quando l’amico, professore ultracinquantenne, si lascia catturare dalla studentessa pantaloni giacca tre quarti grigioperla e velo in testa. Di un sexy strepitoso, aveva commentato la protagonista parlandone a Leyla, moglie dell’amico (non ci si stupisca nel paese degli harem), sottolineando così anche le contraddizioni di quel ritorno all’integralismo, contro il divieto del velo nella scuola e nei pubblici uffici così come voluto da Ataturk alle origini della moderna Turchia.

    La pagina che racconta questa fine d’amore merita una rapida scorsa. È Ferhan stesso a raccontare alla protagonista l’innamoramento per la fanciullina, suscitandone la reazione:

    “Non riuscivo a capacitarmi, e non ci riesco neanche adesso. Da un lato sentivo una compassione profonda per lo stato di imbecillità in cui mi accorgo che è caduto il mio amico: sto freddamente constatando la veridicità di tutti gli stereotipi connessi all’innamoramento dell’uomo in andropausa. Non riesco a vedere il lato bello di questa storia nella quale si è cacciato: elenco a me stessa la lista dei vantaggi che la fanciullina così ingenua e innamorata andrà a trarre da una liaison con il suo professore, la carriera vantaggiosa che le si prepara.

    Dall’altro mi saliva una rabbia incontrollabile davanti all’incommensurabile e infantile egoismo di quest’uomo che stava seduto sul mio letto, davanti alla sua totale indifferenza nei riguardi della donna con la quale stava parlando in quel momento. Come se io fossi … chi? La cara amica, la seconda moglie? E ha aspettato la vigilia della mia partenza per raccontarmi la sua storia? E Leyla?

    • L’hai detto a Leyla?

    • No, l’ho detto a te per prima.

    • Suppongo che ne devo essere onorata…” (pag. 99).

    Al di là della sua conclusione un po’ comica, ridotta a dimessa quotidiana banalità, quella storia fin dall’inizio aveva fra le ragioni del suo fascino una lontananza insuperabile di mondi.

    “Cos’è che mi lega a Ferhan? […]se è quel suo sguardo un po’ selvaggio attraverso gli occhi verdi un po’ allungati, se è la dolcezza delle sue mani. Se è un’incomprensibile forza magnetica […]o se è, invece, la consapevolezza che ogni momento passato con lui è irripetibile perché sconosciuto? Che storia senza futuro e senza fondamento è questa nostra che ci fa tornare e ritornare l’una dall’altro ad incontrarci, anno dopo anno, in due continenti diversi, in una nostra vita diversa?” (pag. 52).

    La diversità dei continenti. Mondi separati che Ataturk ha cercato di riaccostare … Quale l’esito oggi di questo processo? Quali tensioni lo rimettono in discussione? Lo sguardo della protagonista sulla Turchia di oggi rivela un quadro complicato, contraddittorio, in profondo sommovimento.

    Già in aeroporto contraddizioni evidenti. Non più il visto d’entrata, ma lo sguardo della polizia è ancora pieno di sospetti.

    La televisione trasmette di tutto:

    “dai talkshow ai giochi a premio imitati dai programmi americani, soap operas con attrici locali bellocce e fustacchioni palestrati, e cantanti rock e cantanti popolari, e tutti i politici a spiegare le loro ragioni. Da un po’ di tempo proliferano anche i serials edificanti sulle ricompense di un vivere etico e sulla punizione di atti peccaminosi: trasmissioni delle emittenti integraliste” (pag. 19).

    I contrasti sono contrasti di mondi e di epoche diverse, che d’un tratto si trovano l’uno di fronte all’altro, anzi si intrecciano l’un l’altro in un abbraccio indistinto:

    “Usciti dall’albergo, scendiamo giù per la discesina pavimentata di pietroni sconnessi, lungo il muro di mattoni della piccola vecchia moschea del quartiere, dal minareto tozzo un po’ pendente verso la strada. In fondo alla discesa i due soliti ambulanti seduti sul muretto, quello con la cesta delle pile e dei gadgets elettronici, l’altro con le pentole di terracotta” (pag. 21).

    Il caos convulso della metropoli:

    “Questa città caotica, convulsa, dove però pulsa ancora una vita solidale e c’è ancora margine per esprimere la propria umanità … Dove corrono tutti, e non si sa per dove, ma poi te li vedi anche che se ne stanno per ore a bersi un caffè ai tavolini posti sui marciapiedi […] «Quelli lì» stanno chiudendo i centri culturali e i luoghi di manifestazioni e stanno limitando gli eventi laici, dice Ferhan …” (pagg. 22-23).

    Il potere politico accentua sempre più i tratti illiberali. Addirittura al centro culturale diretto dall’amica Mercedes, lei stessa rivela:

    “… ci hanno messo sotto controllo, senza che neanche ce ne accorgessimo. Con il pretesto che spira un clima pericoloso, ci hanno messo le guardie al portone e un «bibliotecario» di loro fiducia. Per proteggerci dal terrorismo, dicono” (pag. 36).

    Sullo sfondo di una città che è immensa distesa di cemento e milioni di contadini inurbati:

    “Sono stati fatti venire a Istanbul milioni e milioni di contadini. Che si sono improvvisati muratori, hanno costruito le case, dove poi sono andati ad abitare, e quando i lavori di costruzione sono finiti, sono finite anche le loro entrate e si sono trovati disoccupati […]. Quindici milioni di abitanti, di qua e di là dal Bosforo, sulle coste del Marmara, a nord, a sud … Costruzione e distruzione …” (pag. 41).

    La storia, il passato? Scomparsi. Ma non mitizziamo: il volto della storia spesso è anche un volto feroce, che riemerge guardando lontano nelle foschia le Isole dei Principi, dove si deportavano gli imperatori bizantini detronizzati e accecati. E le dispute sanguinose fra imperatori e monaci, fra iconoclasti e iconofili:

    “Guarda, proprio da queste mura fu buttato giù il venerabile monaco Michele, sostenitore del simbolo contro l’immagine. Lo scaraventò giù, con le sue proprie mani, l’imperatore Giustiniano II, che nel corso della disputa lo afferrò per la barba, e, trascinatolo alla finestra, lo ribaltò fuori con furia inaudita. Il venerabile andò a sfracellarsi sugli scogli con un urlo che risuonò disumano” (pag. 43).

    Anche il vecchio cimitero fa fatica a sottrarsi alla distruzione o alla mistificazione del mercato turistico:

    “Il vecchio cimitero è ancora come me lo ricordavo, con le sue tombe di pietra corrose, gli steli funerari sormontati dal turbante o dal fiore di pietra, a seconda del sesso del defunto, pencolanti verso il lato […], rimasto com’era nei secoli” (pag. 45).

    Diverso il cimitero nello sguardo di Ferhan:

    “… un’attrazione turistica, mia cara e intelligente amica. Se non ne avesse parlato il tuo illustre e presuntuoso amico Pierre Loti, a quest’ora vi avrebbero già edificato le casette a tre piani, e con il cemento impoverito che il tuo paese ci esporta! Sapessi quanti piccoli cimiteri sono stati distrutti, si può dire che sotto i palazzi di quasi ogni quartiere di questa città, a scavare nelle cantine, si troverebbero le ossa dei sepolti” (pag. 45).

    Una lunga storia di banalizzazione e dissacrazione. Dalle mistificazioni delle “turqueries” di Pierre Loti travestito da turco nella sua casa di Francia, alle turcherie di oggi made in India (pag. 92), al dépliant per uno show dei dervisci roteanti, dove il semplice accostamento dei termini dépliant, show, dervisci, dice tutta la volgarità dissacrante della mercificazione.

    In un contesto che vede la deindustrializzazione dell’Europa trasferire in Turchia arcaiche forme di lavoro a domicilio. Scene già viste nelle campagne italiane del boom anni ’60:

    “Hai visto la moltitudine di donne e uomini anziani che ogni giorno si portano a casa in spalla quei pesanti sacconi di plastica? Vengono a prenderseli qui in città e poi se ne ripartono in autobus per i loro villaggi in Anatolia. Lì dentro c’è il loro lavoro a cottimo, in nero naturalmente, maglioni da fare, tomaie da cucire, vestiti da rifinire. Poi tornano qui a consegnare per due lire. E il manufatto partirà per le grandi città, qui in Europa, vi si applicherà una bella etichetta con un marchio conosciuto e la si venderà cento volte più cara rispetto al prezzo pagato alla tua donnina che ci ha faticato su per giorni” (pag. 56).

    Chi svolge queste considerazioni è l’abate Cecile, del convento domenicano da secoli presente nella capitale turca.

    La conversazione della protagonista con l’abate tocca anche un altro argomento:

    “Mi parla delle difficoltà della gestione della sua piccola comunità, dei pochi fedeli che abitano nel quartiere e che aiutano come possono. Poi torna ai libri, il suo argomento preferito:

    • Allora, l’hai finito, il tuo famoso libro? – mi chiede.

    • Quale? L’edizione critica del romanzo secentesco? La storia del Visir e di Solimano? Quella è finita e pubblicata. Della serie “scriviamo libri che nessuno legge” soltanto per appesantire gli scaffali delle biblioteche universitarie …” (pag. 55).

    Libri d’accademia e libri da vendere:

    “E poi gli ingredienti , tu lo sai, li conosciamo benissimo. Quanti convegni abbiamo fatto insieme sul romanzo contemporaneo e sui meccanismi di comunicazione? Si inventano un paio di personaggi protagonisti simpatici che ritornano in ogni storia, se si è bravi si inventa anche una lingua farlocca, divertente, ed ecco il gioco è fatto. Li assembli ben bene e il romanzo è fatto. Il romanzo che si vende , intendo dire” (pag. 55).

    Ci sarebbero anche altri libri, libri di secoli di sapienza, custoditi con cura dall’abate, ma quanti studiosi li hanno consultati quest’anno?

    Ma torniamo al libro di Rosa. La storia d’amore intreccia un’altra storia. Quella di un complotto terroristico. La spy story è affidata a Nina: un misterioso personaggio che si muove nell’intrigo in gran parte sotterraneo delle sedimentazioni storiche della città, dalla Grande Cisterna dell’antica Costantinopoli ai cunicoli sottostanti la Moschea Blu, dalle torri e bastioni che difendevano la capitale cristiana alle barche del Conquistatore che trasportate via terra ne consentirono la capitolazione. Del giallo è bene non parlare, lasciandolo, come conviene, alla scoperta del lettore. Anche perché il lettore è chiamato direttamente in causa dalla particolare natura del patto narrativo.

    Basterà dire che le manovre del gruppo terroristico che utilizza Nina si intrecciano e si scontrano con le attività dei servizi segreti, trovando un punto significativo di incontro nella base militare di Samsun, la città da cui prese il via la rivoluzione di Ataturk e la modernizzazione turca. Nelle parole del Generale comandante la base:

    “Abbiamo lottato e versato sangue nel secolo scorso per uscire dal medio evo e adeguarci ad una civiltà moderna, per fare leggio democratiche […] per alfabetizzare il popolo, dare dignità e libertà alla donna, laicizzare lo Stato: e adesso …? Cosa sa succedendo al nostro paese? Cosa facciamo? Torniamo indietro nel tempo? Mi risponda Lei, signora, cosa ne pensa?” (pag. 104).

    Come andrà a finire lo scontro? Lo “scontro delle civiltà” analizzato da Huntington fin dal 1996 si colloca in vari punti caldi dello scenario internazionale. Poteva non essere uno di questi proprio Istanbul? Fra le linee di faglia che individuano i punti di incontro-scontro fra le diverse civiltà del pianeta, la grande metropoli a cavallo di due continenti, sospesa fra oriente e occidente, non poteva mancare. La metafora tettonica richiamata da Huntington non è estranea nemmeno al racconto di Rosa: non è un caso che la giornata finale inizi con una scossa di terremoto nel ricordo del terremoto di Izmit. Terremoto? Attentato? Ambedue espressione dei sommovimenti che agitano il pianeta.

    E la vicenda del nostro racconto? Chi è Nina? Chi è veramente Ferhan? Che ruolo svolge in tutta la storia uno zainetto e il misterioso viaggio sul lago di Van?

    Ed eccoci così all’ultima questione. Che poi è anche la prima.

    La natura del patto narrativo che presiede ad ogni operazione di lettura di solito rinvia ad alcune solide convenzioni. A chi appartiene la voce narrante, entro quali contesti si muovono i personaggi, quali regole governano i mondi in cui agiscono, mondi reali o di fantasy, quale inizio alla storia, quale conclusione anche lasciata dichiaratamente in sospeso … Insomma come si struttura il patto narrativo.

    Per decidere come muoverci in questo caso, affidiamoci alle indicazioni e ai suggerimenti della stessa autrice, in qualità di critica. Come se l’esercizio critico si affidasse agli apparati concettuali da lei stessa forniti: una specie di critique par elle-même.

    Mi riferisco ad un articolo del 2011 Reflexions sur les strategies du début. Partextes et incipit dans l’oeuvre de Pierre Michon. È sulla base di quelle indicazioni che possiamo accostarci alla situazione che ci viene presentata con “Sette Notti Otto Giorni”.

    Nel capitolo primo l’incipit ci presenta il narratore in prima persona interno alla storia a darci quasi un diario delle sue giornate (e notti) a Istanbul e della sua vicenda d’amore. Dopo un paio di pagine improvviso un nuovo incipit introduce un nuovo personaggio, Nina, raccontato in terza persona.

    Dalla quarta di copertina (indicazioni paratestuali, dunque) sappiamo che questa nuova storia si svolge “sotto” la città, nell’immaginario interiore della donna, il personaggio che si racconta in prima e che trova in Nina quasi il suo doppio, il suo riferimento speculare.

    Il paratesto chiarisce dunque il patto con il lettore nel senso che, con l’acquisto del libro, si prende l’impegno richiestoci da autore/editore a “decrittare” il testo a seconda del proprio esercizio alla lettura e alle proprie inclinazioni personali.

    La situazione si complica ancora di più per la presenza di due testi, con funzione rispettivamente di prologo e di epilogo, prima e dopo la normale successione dei tredici capitoli numerati. I due testi, fuori numerazione, svolgono una evidente funzione di cornice. L’incipit del primo ci presenta la scena di un disastro aereo, uomini che sembrano provenire da ambienti dei servizi segreti si aggirano fra i soccorritori, una giornalista appunti. Nel testo finale la giornalista (la stessa dell’avant- texte, si presume) ricompare a casa dei due figli di una delle presunte vittime del disastro aereo. In visita privata: i familiari se ne ripromettono informazioni, ma in realtà è la giornalista che cerca informazioni con il suo block-notes. Ambigua situazione fra esigenze private e reportage. Dalla conversazione scopriamo che della madre scomparsa non c’è più traccia, sparita prima ancora di salire sul suo aereo, non fatto nemmeno il check-in. Sparita la valigia, nemmeno arrivato per posta il dischetto con gli scritti che la mamma inviava sempre dai suoi viaggi.

    La giornalista mente: la busta col dischetto si sarà persa, la mamma non avrà fatto in tempo a spedirla dalla posta. In realtà la busta ce l’ha lei, e da parecchi giorni. Perché non farne menzione ai ragazzi angosciati?

    Brouiller les pistes, détourner le lecteur… Questo il patto, la sfida, il match che si apre fra scrittore e lettore per costringere quest’ultimo ad assumere lui stesso il compito di riflettere sulla realtà e riconsiderare il rapporto difficile con il mondo nel quale si vive …

    Il romanzo diventa così racconto da farsi, un gioco aperto al futuro da costruire, un compito nostro.

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